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PRIMI DUE CAPITOLI DEL LIBRO

 

"BEPI IL GALANTUOMO"

 

 



1. AL BAR STELLA

 

 

 

 

 

 

 

Bepi era alto, magro, con le spalle grosse, il suo viso era sempre sorridente, e quel naso corposo non intimoriva nessuno. Bepi era così. Quando entrava nel bar da Gino, o meglio leggendo  l’insegna sopra l’entrata “Bar Stella”, tutti si rallegravano a vederlo entrare, anche se magari non diceva niente, cosa che capitava di rado perché Bepi ne aveva sempre una nuova da raccontare, sul suo vicino di casa, sul suo gatto, su una signora che aveva conosciuto al parco, o anche semplicemente su una formica che gli attraversava la strada. Parlava di tutto con tutti. Il lungo impermeabile grigio nei giorni d’autunno, e il suo cappello di stoffa dura ancora più grigia, non scalfivano il sole che aveva dentro.

Quel giorno al bar c’era Pietro, un omone con le guance basse come quelle di un bulldog, che stava seduto tenendo piantato il suo bastone davanti a sé e posando lo sguardo dove nessuno lo posava. Bepi, vedendolo, gli si intenerì il cuore. Fece dei passettini, come quando si cerca di prendere un passero o una gallina disobbediente, poi come un presentatore davanti al suo pubblico, sciabolò il suo cappello e disse: “Bondì, sior!” Pietro a fatica alzò lo sguardo, e lo riabbassò senza rispondere, facendo un semigrugnito.

“Io sono Giuseppe detto Bepi…  mmm… sa… io ho il vizio di chiacchierare e oramai nessuno qua mi chiama col mio nome.  L’ultima a chiamarmi col mio intero nome era stata mia madre… Poveretta… Quante pene, quella brava donna… Mi vedeva già sposato con cinque… sette… nove figli. Sa, lei amava molto i bambini, e quando io sono avanzato con l’età, e i miei capelli hanno cominciato a diventar grigi… non mi chiamava più ‘piccin mio’, cominciava a chiamarmi ‘torintontela’ o ‘omo senza i pantaloni’. Forse beveva troppi caffè, la mamma, e allora uno-due-tre-quattro-cinque-sei-sette arrivava alla sera e se la prendeva con me. E allora io le rispondevo: ‘Mamma, sei bellissima!’ e lei: ‘Ma va’, tananai, vai a cercarti ’na putela invece di fare comizi nei bar!’ E allora tante volte le prendevo un fiore, all’angolo di via Trieste, e lo tenevo stretto stretto nascosto dietro la schiena, e dopo che lei aveva sfogato l’effetto vibrante dei caffè, io glielo porgevo davanti al suo bel nasino, e i suoi occhi si gonfiavano luccicanti di commozione, prendeva il fiore, mi dava un bacio secco sulla guancia e lo metteva sul balcone. Che cara che era la mia mamma!”

Pietro aveva cambiato colore della faccia due o tre volte: la sua pelle anziana e biancastra era diventata rossa e viola. Faceva saltellare le dita sul suo bastone e guardava Bepi fisso negli occhi. Bepi vedendolo così appoggiò le sue mani sulle mani di Pietro come a rassicurarlo e pronunciò questa frase:

“Sa, a vederla con quello sguardo così protettivo mi ricorda mio padre, tanto premuroso, anche lui aveva un bastone, ma non era così bello, era più nodoso e non così lucido!”

Bepi sgambettando prese una sedia e si sedette composto vicino a Pietro, che girò lo sguardo dall’altra parte. “Eccomi qua, vede, noi non eravamo una famiglia ricca, mio padre lavorava al cimitero comunale, sì, insomma, faceva le buche, sa, quelle profonde due metri, ha presente?” Pietro sembrava un bue sotto sforzo. “Gino, un gingerino per il mio amico! E per me un bicchiere d’acqua grande grande con tanto zucchero come al solito.” Sì, perché Bepi sempre quello beveva, tanto che Gino non sapeva mai quanto farglielo pagare; da una parte glielo avrebbe dato gratis, ma lui lo voleva con talmente tanto zucchero che nelle comande ai suoi fornitori doveva inserire la voce “scorte per Bepi”, dato che consumava più zucchero lui che quattro uomini messi assieme. Gino si avviò verso Bepi con il bicchiere oscillante di acqua zuccherata, vicino al ben più stabile e schiumoso bicchiere di gingerino. E più Bepi ingurgitava la sua bevanda e più parlava, parlava, e se non parlava con Gino parlava con Pietro, anche se non gli rispondeva, e il sorriso di denti sani, bianchi e forti sotto il nasone non si spegneva mai. Ogni tanto si girava e diceva: “Vero, Pietro?” battendo una mano amichevole sul gobbone di Pietro, che più passava il tempo e più assomigliava a un enorme mirtillo con piccole gambe. Ma d’un tratto Pietro fece dei movimenti con la bocca come quando ci si sciacqua dopo essersi spazzolati i denti; il suo sguardo cambiò del tutto e tossicchiando un po’ chiese pacatamente a Bepi: “Ma lei ha fratelli, o… sorelle?”

A Bepi si spalancarono gli occhi e drizzò le gambe: “Sìììì, tanti! E tante! Cioè… ne ho una squadrona… di sorelle… piccole… grandi… E di fratelli… di fratelli ce ne ho un milione… No, dài… forse son troppi… Centomila! Ecco!” Pietro continuò il discorso: “Ma come, centomila fratelli, è impossibile…”

“Ma sì, vedi, noi siamo una dinastia larga… Cioè… fratelli, cugini, parenti, ne ho un’infinità, pensi che un mio cugino dell’Inghilterra ha seppellito la signora Di… Sì, la signora Di, così la chiamano da quelle parti.”

Intervenne Gino: “E dàje con ’sta Lady Diana! Bepi, cambia disco…” “Non ascolti Gino, lui ne sente troppe tutti i giorni e non sa più distinguere chi dice il vero e chi dice il falso. Io l’ho visto mio cugino in televisione, quando c’era il funerale, ed era lì con il petto in fuori, in mezzo alla gente che conta; sa, lì in mezzo ai lordi inglesi non è mica facile fare bella figura.”

“I lords, Bepi, non i lordi; gli inglesi vengono chiamati lords” intervenne Gino, accavallando le pupille.

“E quindi lei ha conoscenze nel campo funerario”, riprese Pietro.

“Certo! Mio padre scavava le buche come una talpa! Quando il comune voleva rimpiazzarlo con lo scavatorino, il giometra del comune fece fare una prova di velocità fra lui e… appunto… ’sto scavatorino… e il mio babbo alzò la bandiera… Era un grande, il mio babbo. Le faceva squadrate e rifinite così bene, le buche, che era un peccato usarle per metterci cose che vanno a male. Quando il mio babbo metteva i pilastrini provvisori, non occorreva neanche tirare le corde e i picchetti per allineare le tombe, perché erano così diritti che quando venivano quelli delle lapidi trovavano tutto a posto. E quando tornava a casa ci raccontava che mentre scavava ogni tanto dai lati usciva qualche lombrico e allora lui si fermava, lo prendeva in mano, ci giocava un po’ e poi lo portava a pascolare nei prati lì vicino. Era un ecogogista, il mio babbo!”

“Ecologista si dice, Bepi”, intervenne di nuovo Gino, che ormai non sapeva più se guardare la televisione o ascoltare le disquisizioni di Bepi.

“Vede, quando uno scava una buca e la scava bene, ci raccontava nostro babbo, ci si affeziona, è come un’opera nostra, delle nostre mani, non c’è una buca eguale all’altra. In una buca ci trovi il lombrico, nell’altra i resti di una sedia di chissà quanti anni fa, nell’altra la bottiglia di qualcuno che aveva bevuto troppo. E poi, el me babbo l’era abituato coi anni di ferro, quando se ne seppellivano spesso, gli anni della guerra. Nel dopoguerra lui lo mettevano a innaffiare i fiori, e c’erano sempre meno buche e sempre più fiori, e a lui non piaceva. Al mio babbo piaceva scavare, scavare, scavare… Nell’orticello che abbiamo vicino alla casetta una volta scavò così a fondo che era arrivato a sei metri… E mia mamma quando lo vide lo sgridò perché non si fanno buche di sei metri… E allora lui per inventarsi una scusa tirò fuori che al bar aveva sentito che i americani avevano inventato la bomba gnotomica, e che bisognava fare il fosso per ripararsi dalla bomba gnotomica.”

Questa volta Gino tacque.

“Sa, mia mamma e il mio babbo si volevano un gran bene, solo che al mio babbo piacevano le buche, e a mia mamma piacevano i fiori, e lei piantava, mentre lui scavava. Forse non erano fatti la una per lo altro, il mio babbo e la mia mamma.”

 

Pietro sorridendo scrollò il bicchiere e bevve il suo ultimo sorso di gingerino. Mise la mano sulla spalla di Bepi e disse: “Bepi, adesso ti saluto, devo andare a cena, sono in ritardo, la mia sposa mi aspetta. Ma se vuoi puoi unirti a noi, mi piace la tua compagnia, così mi racconti per bene la storia di tuo cugino”.

Bepi stralunò gli occhi. “Ma è sicuro? Non disturbo?” chiese, trattenendo il cappello che si involava da una parte, data la forte emozione.

“Certo. Sei un brav’uomo, vieni con me che ci facciamo compagnia stasera. Mia moglie fa ’na minestra de passato che ha il sapore delle minestre de ’n tempo, delle minestre che si mangiavano quando eravamo poveretti ma contenti. E con un po’ de’ crostini, pan tostato, ’na fetta de formaggio e un buon vino novello vedrai che staremo da gran signori.”

Bepi guardava Gino e guardava Pietro e guardava Gino e guardava Pietro. Poi Bepi si avvicinò a Gino e disse: “Gino! Dimmi quanto che è per la mia bibitona e il gingerino! Fammi un buon prezzo che stiamo andando verso il Natale!”

Pietro intervenne: “Fermo là! Giù quel portafogli! Questa sera te sei mio ospite e un mio ospite non tocca il portafogli!” Pietro tirò fuori a fatica il taccuinone e saldò il conto dopo varie disamine fra i biglietti accavallati. Uscendo dal bar si udì una voce di sottofondo “Quello lì sarebbe capace di farsi invitare a cena anche dalla Ferilli!” Era la voce di Gino, che spense il televisore e sciacquò il bicchiere di Bepi, sul quale fondo era ancora rimasto il cinquanta per cento dello zucchero.

In quella sera un grande lunone illuminava due uomini che camminavano sorridenti lungo le straducole del paese trentino. E il riverbero delle loro voci rimbalzava da un androne all’altro, Bepi che raccontava, e Pietro che ascoltava e che rideva.

 

 

2. LA PINA CHIAPALEPROTTI

 

 

 

 

 

 

 

Pietro si fermò davanti a una piccola scala in cemento lisciato dal tempo e tirando fuori dalla tasca un pesante mazzo di chiavi disse a Bepi: “Vieni! Questa è la mia casuccia! Accomodati!” Ma non fece neanche in tempo a inserire le chiavi dentro la serratura che si sentì un fracasso rotolante di pentole e pentolame. “Santa Caterina!!” Si udì una voce femminile smorzata dal grosso portone in legno.

“L’Armanda ne ha combinata una delle sue”, pensò Pietro. “Vieni, Bepi, mia moglie è già in casa, a quanto pare.” Pietro spalancò il portone e agli occhi di Bepi apparve una cucina arredata con sedie solide, un tavolo coperto da un telo in plastica a rombi e scaffali pieni di barattoli di conserve.

“Che combini, Armanda? A forza di stare in giro a bere caffè con le comari, ti salta il polso e fai scatafasci!” esclamò Pietro.

“Ma no, scusami, Pietro, è che ’sto gatto della malora mi fa diventar matta: continua a miagolare, miagolare, e non se capisce cosa el vol, e io divento nervosa.”

Pietro smorzò il discorso e presentò col viso un po’ imbronciato Bepi “Questo Armanda è Bepi, ci siamo conosciuti oggi al bar da Gino, sa tutto su come si scava, si squadra le buche, è uno che conta nel campo funerario”.

 

“Funerario? Ohibò… ” esclamò fra sé e sé Armanda.

“I miei omaggi, siora”, si presentò Bepi chinandosi in avanti, mano leggera sullo stomaco e occhi debitamente chiusi. Armanda rimase lusingata ma anche insospettita da cotanta galanteria, e ricambiò con un breve sorriso. “Vede, cara siora, anch’io ci ho un gatto come il suo, proprio uguale uguale, ci ha il pelo nero come il catrame e due occhi gialli come due albicocche, e mangia di tutto. Una volta lo avevamo sorpreso che stava masticando una certa quantità de garofani e crisantemi rinsecchiti… È sempre affamato, il nostro gattuccio.”

Armanda ascoltava interessata: “E come si chiama il vostro gatto? Il nostro si chiama Pollicino”.

“Caronte, signora, mio padre lo volle chiamare così, ci disse che era un nome importante, mio papà se ne intendeva di storia, la sera davanti alla stufa ce ne raccontava di tutti i colori, e noi ci tenevamo stretti stretti, perché erano grosse, le cose che raccontava il mio babbo, e noi eravamo troppo piccini per capire cose sì grandi.” Armanda si era bloccata con la pezza per asciugare le posate in una mano e il mestolo nell’altra, ascoltando quasi magnetizzata il divagare di quel magro gentiluomo.

 

“Ma siediti, siediti…” disse Pietro tornato di buonumore, appoggiando entrambe le mani sulle spallone di Bepi. Bepi si sedette sorridendo parallelamente ad Armanda, che era contenta di avere ospiti. Pietro e sua moglie erano arrivati da poco in paese, venivano dai sobborghi poco distanti dalla città: non sempre avevano ospiti a casa, non tanto per la diffidenza dei compaesani ma perché Pietro era uno che amava farsi gli affari suoi, non gli piacevano le combriccole e andare al bar per lui era solo un rito obbligatorio, come andare a Messa il giorno di Natale, di Pasqua e a Ognissanti. Un lucanicone lungo mezzo metro che sembrava un grosso serpente imbalsamato venne cullato un attimo tra le braccia di Armanda, che poi lo adagiò su un tagliere ben più piccolo, tenendone la punta estrema pronta per il taglio.

“Mmm… solo il profumo ti fa innamorare!” esclamò Bepi.

“Eh sì, ’sta bestiuccia pesava duecento chili, Bepi, a scannarla c’è voluta mezza parentela, me fradel e altri. Pensa che i miei nipoti ci son saliti in tre come en cavallo, e abbiamo chiamato quello che fa le fotografie, era un peccato mangiarlo senza ’na briciola de ricordo.”

Pietro aveva ereditato la passione per la campagna e per le bestie dal padre, ma non aveva potuto trasmetterla alla generazione successiva, non avendo avuto figli. Armanda aveva fatto molti esami e cure per combattere la sterilità, ma nonostante l’impegno non c’erano stati risultati.

Un lungo pane tagliato sapientemente a fette si affiancò al suino assassinato. “Giù le mani dalla lucanica, Pietro!” ammonì Armanda vedendo il marito impaziente di assaggiare per primo il bel pezzo di salame profumato. “Prima c’è la minestra con le stelline e gli anellini, ce l’ho in caldo da un bel po’, e sai bene che non si vive di solo pane e salame!”

Pietro fece la faccia di un bambino castigato ma acconsentì con un sorriso agrodolce.

“Mah…” Bepi si alzò diritto in piedi, anche se un po’ sconquassato per l’effetto del vinello, sicuro di fare bella figura. “Prima di mangiare ringraziamo il Signore Iddio per il pane, benediciamo il maiale rerum novarum e tutto il resto che ci ha dato!” Bepi si portò il cappello al petto, Pietro congiunse le mani, Armanda tenne stretto stretto il mestolo e tutti sentitamente dissero un Padre Nostro e un’Ave Maria. “A… men!” concluse Pietro, finendo la parola con le manone già sul salame.

Bepi gustava la minestra, fatta con brodo di gallina, dopo averci messo un po’ di pane. Ogni tanto faceva strani rumori aspiranti con il cucchiaio; Pietro non ci faceva neanche caso, ma Armanda dentro di sé rideva compassionevolmente.

“E allora, Bepi, quando vai a trovare tuo cugino?”

“Eh, Pietro, la Inghilterra è lontana, son mari e monti e mari e monti, e poi lì mica puoi bere il vino entra el giorno. Lì bevono sempre il tè, mattina tè, mezzogiorno tè, pomeriggio tè… Almeno si potesse correggere con un po’ di grappa, sarebbe più digeribile, ma i lordi inglesi ti guardano di traverso se ti porti appresso un bottiglione di grappa delle nostre. Mio cugino mi ha raccontato che camminano come i gendarmi ‘uno-due-uno-due’, e se ti parlano non ti mostrano mai i denti, e ti guardano sempre dall’alto verso il basso, tanto che una volta mio cugino si è accucciato per terra per vedere se incrociava il loro sguardo. Gente strana, i lordi inglesi.”

“Già, già… ” commentò Pietro semisoffocato da pane e salame. Poi, deglutito il boccone: “Magari bevono tanto tè perché si sentono gente importante; sai, i signori bevono il tè e parlano di politica, noi invece che siamo ignoranti beviamo il vino rosso e di politica non capiamo un fico secco… Ma fa lo stesso, noi a bere il nostro novello abbiamo un bel colorito e ci teniamo su il morale, loro a forza di bere tè sono diventati bianchi e smorti che se gli dai una pacca sulla spalla cadono a terra come stuzzicadenti! Ah! Ah! Ah!”

“Hai pienamente ragione!” ribadì Bepi.

“Ahooo! Dove credi di andare?” si sentì una voce solida entrare diritta diritta dalla finestra aperta. “Non vedi che è tre quarti d’ora che ho messo la freccia?” Nel parcheggio sotto la casa di Pietro due automobilisti si stavano contendendo sonoramente l’unico posto rimasto nella piazzuola davanti al Municipio.

“Porci screanzati!” intervenne Armanda senza voltare il capo. “Vanno a vedere il film al cinema dell’oratorio, di quella attrice romana, come si chiama, la Chiapaleprotti, la Pina Chiapaleprotti, ma non ci vanno mica per la trama, o per imparare qualcosa, vanno solo per lustrarsi gli occhi e sbavare come i cani! Poveretti!”

“Eh, santa bottiglia!” intervenne Pietro. “Che sarà mai… Vedi, Bepi, la Chiapaleprotti ha due gambe, che sembrano due gambe, ma in realtà…”

“In realtà sono quattro, perché è una vacca!” intervenne Armanda girandosi verso i due compari.

“Sono due, Armanda, cosa dici, ma son gambe così ben impastate che sembrano due zamponi e ti verrebbe voglia di darci una morsicata!”

Armanda tornò all’attacco: “Pietro, a forza di mangiare la lucanica diventi un maiale anche tu! Continua così, che poi chiamiamo lo zio Berto e facciam scorta per l’inverno!”

Bepi ascoltava con due occhi grossi come angurie, Pietro gli spiegava tutto: la camminata da cerbiatta della Chiapaleprotti, lo sguardo da volpacchiotta della Chiapaleprotti, le movenze da fagiano della Chiapaleprotti, la voce da usignolo della Chiapaleprotti…  Bepi ascoltava Pietro con il pane e il salame in bocca, senza masticare, tanto che a un certo punto deglutì tutto d’un botto e si aggrappò al bicchiere di vino per far transitare le cibarie magnetizzate anch’esse dalla Chiapaleprotti verso il loro giusto posto. Mentre Pietro raccontava, Bepi fantasticava: sognava se stesso vestito di blu, con la camicia bianca, il ciuffo laccato, sbarbato come un pomo appena lustrato, con grossi bottoni dorati e scarpe con la punta stretta, che tenendo in mano un mazzo di orchidee incontrava la Chiapaleprotti nel bel mezzo di un campo fiorito di primule e crisantemi. Bepi si dondolava su e giù con la sedia, tanto che Pietro si accorse di averlo suggestionato un po’ troppo con la storia della Chiapaleprotti, e gli disse: “Su, su, Bepi, non pensare troppo alla Chiapaleprotti… Quelle donne lì sono come la merce che c’è alla bottega di Serafino, ‘guardare e non toccare’… O meglio, le puoi toccare solo con un assegno in bianco, e poi, vorresti fare il damerino ai suoi servizi come se fossi il suo maggiordomo? Suvvia!”

Bepi, rinsavito dalle sagge parole di Pietro, si alzò di buonumore dalla sedia, e quasi commosso disse con voce flebile: “Siete stati così gentili, ospitali, ecco… io non so come contraccambiare…”

Pietro chiuse un occhio, guardò severamente Bepi e gli disse: “Guarda, Bepi, un modo c’è… Ma RICORDATI, non segnare nessuna data sul calendario, che MANCO IDDIO ti venga in mente: quando passeremo a miglior vita, ci farai una buca stile ‘Bepi’ come le sai fare tu… Qua la mano, amico!” Pietro prese la mano di Bepi, scrollando quell’alt’uomo dal fisico esile ma con le spalle grosse. Bepi con un po’ di scaramanzia si impegnò a realizzare il desiderio di Pietro, poi ringraziò, ringraziò e ringraziò, fece i complimenti ad Armanda, promise di incontrarsi nuovamente con Pietro e togliendosi il cappello pian piano in retromarcia si congedò dai due coniugi, col sole che si stava infilando sotto le lenzuola nevose dello splendido paesaggio montano.

 

“Adamo ed Eva nel peccato

Parapon zipon zipon

Eran sotto un pergolato

Parapon zipon zipon

Per un grappolo rubato

il buon Abele fu ammazzato

Daghe da be’ biondina

Daghe da be’ biondà…”

 

Bepi smaltiva l’effetto del novello scendendo la scala che portava in strada e canticchiando. Pietro si era dimostrato molto gentile e alla buona, contrariamente a come era sembrato in un primo momento al bar, e anche Armanda era una brava donna e molto disponibile. A un certo punto notò la lunga coda che ancora stagnava davanti all’oratorio per la prima di Via con lo struzzo, il film la cui attrice protagonista era appunto la famosa Pina Chiapaleprotti. Bepi si avvicinò fischiettando, le mani dietro la schiena, fino a giungere nei pressi dell’arco di entrata. Gesso. Poi pietra. Come la Medusa pietrificò Polidette, Bepi rimase pietrificato alla visione della locandina che riportava, per intero, l’immagine di lei, la donna dagli splendidi zamponi, dallo sguardo da volpacchiotta, dalla voce che gli sembrava dire: “Bepi, mio Bepi…” Per dieci minuti buoni Bepi si trasformò in una colonnina dell’idrante al lato della strada, o poco più, poi pian piano gli si accese un foco in core e si sgretolò da quello stato, dirigendosi con passo deciso verso la biglietteria.

Un’anziana signora con lo sguardo obliquo, addetta alla distribuzione dei biglietti, lo guardò e gli disse: “Lei solo?”

“No, siamo in due, c’è Pina dentro che mi aspetta!”

La signora un po’ perturbata replicò: “Va be’, se la sua amica è già entrata allora vuol dire che ha già pagato”.

Con garbo, come stesse dando del mangime ai polli, la signora fece planare il tanto sospirato biglietto nelle mani di Bepi, che lo baciò e si diresse ansioso verso quella stanza buia, semichiusa da due mastodontiche tende rosse. Bepi entrò e cercò posto nell’ultima fila, il film era già cominciato, scrutò a destra e sinistra e in fondo e in cima, nisba, non vedeva il SUO posto, finché, in mezzo alla platea, vide una poltrona dalla quale non spuntava nessuna testa.

“Ecco, quello è il mio pulpito, da lì dichiarerò il mio amore a Pina!” si disse in core. Si diresse con passo felpato lungo il corridoio laterale, poi a metà platea cominciò ad addentrarsi nella fila dove lo aspettava il suo posto.

“Acc… stia attento! Dove mette i piedi?” borbottò un signore con la barba che assomigliava vagamente a un rabbino.

Bepi rispose sussurrando: “Scusi, signore, ma non è mica colpa mia se mi hanno fatto i piedi grandi, come potrei stare in piedi io così alto con dei piedi da nanerottolo? Andrei in giro come la torre di Pisa, solo che la torre di Pisa ha fior di ingegneri che la controllano che non caschi, a me non mi ci guarda nessuno!”

Il signore stralunò gli occhi non sapendo cosa rispondere; dalle file dietro alcuni cominciavano a mormorare, Bepi proseguì come in un percorso a ostacoli, e quando giunse al suo posto, disse: “Ah! Ecc…” Un minuscolo bambino col pancino rotondo stava mangiando a velocità industriale pop-corn, facendolo cadere un po’ qua ed un po’ là. Bepi si era immaginato un posto vuoto, ed invece si trovava lui, un roditore di mais scoppiato. “Si segga, cosa fa lì in piedi?” protestavano dalle file dietro. Bepi non sapeva cosa fare, e quando Bepi non sa cosa fare batte le rotule delle ginocchia l’una contro l’altra per spremersi le meningi.

E all’improvviso gli venne un’ideona: “Bel bambino, sono Bepi cavallo del Vest, vuoi sederti sulle mie ginocchia? Vedrai che starai più comodo e ti sentirai come su un cavallo di razza!”

Il bambino lo guardò con disprezzo continuando a mangiucchiare il suo pop-corn, ma poi si alzò e lo fece accomodare. “Ecco!” disse soddisfatto Bepi, che si caricò il roditor… ehm… il bambino sulle ginocchia. Bepi si spostava a destra e sinistra in continuazione, voleva vedere la sua amata, mentre il bambino spargeva pop-corn dappertutto.

A un certo punto il bambino cambiò espressione e disse: “Questo cavallo è troppo duro, voglio scendere!” Le gambe scarne di Bepi non erano certo un buon sofà; Bepi non sapeva che fare, lì di fianco c’era la madre del bambino, ma battendo le rotule gli venne un’altra ideona. Pian piano slacciò quattro-cinque bottoncini della sua camicia di cotone, si mise le mani sulla schiena e pian piano slacciò gancetto per gancetto la sua pancera, la sfilò e sussurrò al bambino: “Non preoccuparti, bimbo, ti ho procurato la sella!” Bepi distese la pancera riuscendo ad allacciarla fin sotto le sue ginocchia. Il bambino sembrava più tranquillo, Bepi vedeva passare la bionda chioma di Pina, poi la testa tonda del bambino, e viceversa.

Il bambino cambiò espressione nuovamente: “Ma questo cavallo non ha le redini, cosa me ne faccio di un cavallo senza redini? Non mi piaceee!”

“Ssttt!” gli sussurrò Bepi. Tic-toc-tic-toc. Il suo genio nascosto ne inventò un’altra. Si abbassò e sfilò lentamente i lacci delle scarpe, prima la scarpa sinistra, poi quella destra, e strinse i lacci con un nodo intorno alle ginocchia, in modo che il bambino potesse tirarli e usarli come redini. Bepi era stremato, ma vide il grande sorriso latteo di Lei sullo schermo, e tornò di buonumore.

“Ma questo cavallo non nitrisce!” si lamentò di nuovo il bambino, mentre tirava i lacci. Bepi allora alzò le ginocchia come per fare impennare il cavallo, emettendo dei piccoli nitriti sillabati “Hi-hi-hi” per non disturbare chi era seduto lì intorno.

“La strada fra me e te è irta di difficoltà, mia amata, ma attraverserò il deserto, pur di incontrarti e conquistare il tuo cuore!” pensava Bepi tra un nitrito e l’altro. Il bambino smise di tirare i lacci. “Oh, no…” pensò Bepi, invocando Santa Barbara, protettrice degli scavatori. “Questo cavallo non ha la criniera! Cosa me ne faccio di un cavallo senza criniera? Pffff!”

Bepi questa volta era veramente in difficoltà. Dove la trovava una criniera? Nei cinematografi fornivano pop-corn e bevande, ma criniere… Tic-toc-tic-toc-TIC-TOC-TIC-TOC… TOC! Bepi girando la testa a destra, a sinistra, avanti e indietro come un periscopio, adocchiò il pellicciotto di una signora che nonostante l’oscurità si vedeva proprio che ci era andata pesante con il make-up. Bepi infilò una mano tra le poltrone, sfilò il pellicciotto come fosse un gatto da una fessura, lo piegò in due e lo infilò stretto stretto fra le sue ginocchia, a ridosso della pancera. “Yeahh!” gridò il bambino cavalcando e tenendosi con le mani al pellicciotto. Ma in quell’istante apparve una scritta bianca in stampatello sullo schermo nero: “FINE”. Si accesero le luci, il bambino scese da cavallo. Bepi si alzò in piedi, con la camicia slacciata, la pancera abbottonata all’altezza delle ginocchia e il pellicciotto infilato tra le rotule.

“Ahh! Un maniaco! Ottavio, guarda!” gridò la madre del ragazzino.

“Il mio pellicciotto! Polizia!” Allibita, la signora supertruccata allargò le braccia divaricando le dita delle mani.

“M-m-m-ma no… Sss-petate… Son qui per Pina, lei… mi aspettava… ”

Bepi fece un passo in avanti, ma inciampò, dato che era semi- immobilizzato dalla pancera, e cadde per terra stecchito come una zanzara accoppata a mezz’aria. La signora supertruccata fece per prendere il suo pellicciotto, ma non riusciva a sfilarlo perché era incastrato tra le gambe di Bepi, allora un signore le diede una mano, e dopo averlo ottenuto se ne andò indignata. Pian piano la sala cominciò a svuotarsi. Un quarto d’ora dopo un messo comunale arrivò alla biglietteria e chiese: “Cos’è successo? Che è ’sto casino che mi chiamano a quest’ora di notte?” L’anziana cassiera con aria di sufficienza rispose: “Mah, sembra che un uomo alto, magro, abbia fatto gesti osceni o cose del genere, probabilmente se la voleva fare con la sua amica, una certa Pina, che era già entrata quando lui era arrivato. E forse si è spinto un po’ oltre, voi omeni siete tutti uguali!”

Il messo sbalordito entrò e trovò Bepi ancora per terra che borbottava: “Pi-pina, io ti voglio tanto bene, perché m-mi sei sfuggita?”

Il messo comunale esclamò: “Mmm, vedi che la vecchia aveva ragione… Meglio che lo portiamo a dormire nel letto finto che sta sotto il palcoscenico… Poi domani magari si riprende e si parla da omeni a omeni!”

Il messo prese per le mani Bepi e lo trascinò faticosamente fino a una scaletta in legno, che dava fin sotto il palco. Bepi barcollava un po’ e farfugliava “Pi-pi-pi-pi-na… Pi-ri-pina… ” Il messo lo fece scendere nel sottopalco prendendolo per le spalle e strascicandolo giù per la scaletta, poi lo lasciò vicino a una mensola e gli disse: “Tieniti qui un momento, che ti preparo il letto!” Bepi ruotò su se stesso e cadde sulla sua sinistra dritto sul letto, come un albero appena tagliato da un boscaiolo. “Poveraccio!” esclamò il messo; lo coprì con delle coperte semi-impolverate, gli diede due colpetti di incoraggiamento sulle spalle, e salendo le scale e spegnendo l’unica lampadina che faceva da lampadario al sottopalco, sparì, lasciandolo al buio.

 

“Pi… pi-ri-pi… pi-ri-pina”, si sentì riecheggiare nel buio della piccola stanza per diversi minuti. Poi il silenzio. E infine: “Ronf… fffff”, “Ronf… ffff”.

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